Archivio per dicembre 2016



#11 Band of Horses – Why Are You Ok

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Ecco un altra band che dopo i primi due dischi mostruosi, sembrava aver perso la bussola. Produzioni troppo pulite, poca fantasia, insomma la sensazione di fare il compitino.
Ci sono dovuti un paio di dischi con collaborazioni importanti, e sopratutto mettere in cabina di regia pezzi da novanta come Jason Lytle dei Grandaddy o Rick Rubin per vedere scintillare di nuovo il nome Band of Horses.

Non che sia cambiato il loro marchio di fabbrica: alt-rock con voci alla Buffalo Springfield, chitarre indie-quanto-basta, barbe lunghe e camicie a scacchi come si mettono solo a Seattle.
C’è spazio anche per una chicca: J Mascis nell’ennesima ospitata, ma invece del solito assolo spacca timpani, ci mette la sua voce per una volta meno falsetto del solito.
Canzone: Dull Times/The Moon

#12 Ben Harper – Call It What It Is

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Dopo diversi dischi con l’altra formazione, i Relentless7, due dischi duetti (uno con sua madre, e uno con Musselwhite) Ben Harper ritorna alla formazione più cazzuta della sua carriera: gli Innocenti Criminals, ed i risultati si sentono. Una ritrovata ispirazione e una sezione ritmica decisamente più interessante.
Per assurdo il pezzo più debole è il singolo, Pink Baloon ( parla di Banksy, non di prestazioni sessuali, porci!)
il resto è il solito connubio vincente fatto di chitarre acustiche (tante) chitarre slide (poche), e una sezione ritmica basso/batteria/percussioni che non ha niente da invidiare a nessuno.
Ma forse è sui testi che questa volta il vecchio Ben si è superato, rendendo questo suo lavoro il più interessante dopo diversi dischi in cui la vena si era un po affievolita. Un moscio il mastering e il mixaggio, copertina tristissima ma in compenso tanta fantasia nella composizioni, si passa con disinvoltura dall’adult rock, al reggae, al folk con una naturalezza strordinaria.
Canzone: Finding Our Way

#13 Moderat – III

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Per i quattro gatti che ancora non lo sanno, Moderat è un progetto di musica elettronica, risultato dell’unione tra Apparat e i Modeselektor. In Attività dal 2002, sono tra gli esponenti di punto di un movimento chiamato “ intelligent dance music”. Un nome che mi fa vomitare solo a scriverlo. Invece il disco non fa vomitare affatto, anzi, si fa ascoltare proprio bene nonostante i tedeschi con la musica sono avvezzi quasi come il cibo.
Canzone: Intruder

#14 Kings of leon – Walls

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Mi è abbastanza difficile collocare i Kings of Leon: Southern rock suonato da quattro tizi del Tennessee tutti con lo stesso cognome, un passato da mormoni ( o qualcosa del genere) e una capacità innata di scrivere canzoni orecchiabili.
Si perché non brillano certo in fantasia, tecnica o altro, ma ancora al settimo disco riescono a mettere insieme una decina di canzoni gradevoli, dove non spicca nessun fuoriclasse, ma un ottimo gioco di squadra.
Canzone: Walls

#15 Minor Victories – Minor Victories

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La storia ci insegna che i super-gruppi non hanno mai funzionato. Grosse aspettative e miseri risultati. C’era sempre qualche rigetto pur se i componenti erano di altissima qualità.
Questa volta le cose funzionano un po meglio. Il mio omonimo Stuart dei Mogwai, Rachel Goswell degli Slowdive, uno degli Editors, più qualche ospitata tipo l’onnipresente Mark Kozelek si fondono bene, sopratutto se vi piacciono gli anni ’90 e i droni britannici.
Si perché si tratta nello specifico di un istante classic di shoegaze riportato ai tempi nostri. Batterie gonfie alla Editors, strati su strati di chitarre, e voce sussurrata che lotta continuamente per non venir seppellita dalle distorsioni. Niente di nuovo direte: è vero, ma in realtà sono diverse le canzoni convincenti e la Tele di Stuart è sempre una garanzia.
Canzone: Folk Arp

#16 Damien Jurado – Vision of Us on The Land

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Ormai ci ha abituati bene: preciso come un orologio, ogni due anni sforna un album che bene o male rimane su livelli alti, nonostante sia ormai al dodicesimo disco.
La ricetta è sempre la stessa: dolci melodie e sei corde di bronzo dal vivo, che su disco vengono accompagnate  sempre di più da batterie riverberate, echi, riverberi e questa volta leggeri sprazzi di psichedelia.
Stavolta esagera pure col numero di canzoni, diciassette sono decisamente troppe, e qualche sforbiciata qua e là avrebbe sicuramente giovato all’economia del disco. Ma ormai gli vogliamo bene a questo orso taciturno, e per l’ennesima volta finisce in classifica.

Canzone: A.M.AM.

#17 The Radio Dept. – Running Out of Love

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Un disco che è arrivato un po a sorpresa, dopo sei anni di attesa non ce l’aspettavamo più, e invece il 2016 ci ha regalato un nuovo lavoro del duo svedese.
Sebbene questa volta il suono è leggermente più orientato alla pista da ballo, i nostri eroi scandinavi hanno sfornato un altro lavoro convincente (un gradino appena sotto i precedenti però) creando il solito connubio tra atmosfere sognanti alla Cure periodo DIsintegration, batterie elettroniche leggere, e tristi melodie avvolgenti.

Canzone: Running Out Of Love

#18 Nick Cave – Skeleton Tree

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C’è una grossa nuvola nera sopra questo disco. Come in quello di David Bowie o di Leonard Cohen. Lo si intuisce già dalla copertina, o dal titolo. Bob Dylan direbbe: “A Hard Rain Is Gonna Come”. Nick Cave lo dice a suo modo. L’elemento in comune con tutti è uno solo: la morte. In questo caso non quella in prima persona, ma quella che colpisce un familiare molto caro: un figlio.
Anche se questo disco è nato sotto altri auspici, è ovvio che la tragica fine del figlio quindicenne del cantante australiano ha segnato in maniera equivocabile questo Skeleton Tree.
E’ il risultato è bellissimo e straniante allo stesso tempo. Nonostante Nick Cave adesso trattato l’argomento “morte” mille altre volte,( ha pure fatto un disco sugli omicidi ) questa volta la prospettiva personale dona al disco un aura di pesantezza ma anche di credibilità. Il risultato sono otto ballate, sussurrate, con le chitarre al minimo, e le liriche che volano alto, proprio come quelle nuvole nere.
Canzone: Skeleton Tree

#19 Hammock – Everything and Nothing

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Li conosciamo in quattro gatti. Hanno un nome che tradotto fa sbellicare dal ridere, i loro dischi non compaiono in nessuna classifica, e Pitchfork non li recensisce dal 2010.
Eppure quasi ogni anno sfornano un disco che è un piacere ascoltare. Sopratutto se guidi la macchina di notte, ed è inverno.
Post rock quasi sempre strumentale, echi di Tristeza e Explosion in the Sky. Echi e riverberi sulle chitarre e atmosfere sognanti. Anche se questo disco è un po meno riuscito rispetto ai due precedenti, ha tutto il merito di entrare nel classificone di fine anno.

Canzone: Burning Down the Fascination

#20 James Blake – The Color In Anything

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E giunse il terzo capitolo del genietto inglese. Lunghissimo, possiamo dire che 17 tracce oggi sono troppe? Decisamente si. Anche perché il disco è bello, i suoni sono super, le atmosfere notturne e intime, la produzione è del santone Rick Rubin, ma obiettivamente è quasi impossibile ascoltare il disco dall’inizio alla fine. Possiamo dire che il problema affiggeva i dischi precedenti, sopratutto il secondo, è rimasto: cioè la difficoltà di scrivere canzoni. Infatti i suoi pezzi migliori sono sempre state cover, oppure come in questo caso, quello in collaborazione con Justin Vernon ovvero Bon Iver.

Canzone: I Need A Forest.


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