Archivio per aprile 2014

Songs for a Blue Guitar.

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Non si dovrebbe mai conoscere i propri idoli.

Alla fine si rimane sempre un pò delusi. Sono sempre un pò più bassi di come te li aspetti, più brutti, più vecchi, o più antipatici.

In realtà questa data di Mark Kozelek era stata programmata mesi fa, mi ero preparato bene, ascoltando tutti i suoi dischi, da quelli imperdibili marchiati Red House Painters, a quelli dove gli ha dato di matto e sembra che si sia iscritto a un corso di chitarra spagnola.

Sapevo anche che sarebbe una serata austera, luci basse, niente foto, niente video, nessun afterparty. Un concerto solo voce e chitarra classica. Non resistendo ero pure andato a vedermi i setlist degli ultimi concerti autospoilerandomi quello di ieri sera.

Come mai questo astio direte voi? E’ presto detto. Quando ci sono dei problemi tecnici così gravi in un concerto, la colpa è sempre di due persone: il fonico e l’artista. Ora, io non ero presente al soundcheck, e non sono al corrente delle indicazioni di Mark, ma non puoi compromettere la prima mezzora di un concerto con suoni terribili, reverberi che neanche Paul Chain nei suoi migliori incubi, artista che si mette a sfottere il fonico, e che se ne frega del pubblico spostando il microfono e cantando a voce nuda col risultato che tre quarti del pubblico non sente nulla.

Ora voi direte che sono artisti, che Mark ha avuto una giovinezza “movimentata” e che il suo equilibrio psichico sia decisamente altalenante, lo dimostrano i suoi dischi, e i suoi sbalzi di umore, però c’è sempre un limite di rispetto che si deve avere con chi lavora per te, e per chi si fa kilometri per venirti a sentire.

Per il resto il concerto è stato esattamente come me lo aspettavo: Austero. Mark in camicia nera, chitarra classica (accordata in maniera maniacale ad ogni pezzo), DI e voce. Repertorio esclusivo degli ultimi due dischi Sun Kil Moon e Desertshore, nessuno spazio per i fronzoli, luci o ruffianate. Mi ha sorpreso la sua loquacità, e il fatto che ignorasse completamente in quale città fosse.

Concerto lungo, intorno alle due ore, con il Bronson miracolosamente pieno di trenta/barra/quarantenni che hanno versato fiumi di lacrime in dischi che hanno segnato la nostra fragile gioventù, e che speravano che almeno gli sarebbe stata data una piccola concessione.

Non si dovrebbe mai conoscere i propri idoli.

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