Archivio per dicembre 2016

#1 ANOHNI – HOPELESSNESS

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Ci siamo. Il disco più bello di questo 2016 è HOPELESSNESS di ANOHNI.
Un disco pazzesco, nato dalle ceneri di quello che si faceva chiamare Antony and the Johnsons, abbandonati gli strumenti, cambiato nome e addirittura il sesso.

Ma mentri gli ultimi lavori come Antony erano decisamente poco incisivi, questo cambio totale le ha giovato alla grande. Non più pianoforte e batterie, ma l’apporto decisivo di Oneohtrix Point Never e di altri geniacci della musica elettronica hanno dato linfa vitale alle canzoni di Anohni. La quale è tornata incazzata e combattiva come non mai. Che sotto i synth aggressivi e le batterie elettroniche ne ha per tutti, dai droni che bombardano, alle crisi del pianeta, dalle esecuzioni a Obama.

Un disco mostruoso a livello di testi, di melodie, e di produzione, e, ma non è certo una novità la bellissima e struggente voce a chiudere il cerchio di un disco (quasi) perfetto.

Quasi perchè ci sono un paio di pezzi “pesanti” come Obama che fanno abbassare il livello di un lavoro che spero porterà una nuova vita musicale, visto che quella (meravigliosa) di Antony and the Johnsons è definitivamente tramontata.

Canzone: Why Did You Separate Me from the Earth?

#2 Car Seat Headrest – Teens of Denial

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Devo ammettere che questa è stata la mia più grande scoperta del 2016. Lo so che avevano fatto un altro disco nel 2015, ma io almeno non li conoscevo. Quando ho iniziato a leggere i primi feedback entusiastici su questa band dal nome ridicolo, come al solito me ne ero allontanato. Poi un ascolto casuale di un live mi ha fatto accendere la lampadina. Una tale freschezza di scrittura non la sentivo dai tempi del disco azzurro dei Weezer. Nei pezzi di Will Toledo (a volte lunghissimi) si possono sentire le influenze dei Pixies o degli Yuck volendo rimanere ai tempi moderni. Parliamo di pop/rock semplicissimo: chitarra-basso-batteria. Suoni grezzi, produzione al minimo, il motivo è che avendo dei pezzi così forti non ne ha bisogno. Quasi tutte le canzoni ti fanno battere il piedino, o ti fanno venire voglia di cantare a squarciagola, i testi a volte sono esilaranti, a volte pungenti, e parlano di college, della Costa Concordia, di amici che sono meglio con la droga, o di droga che è meglio con gli amici, di cercare di tornare a casa salvi con la macchina da sbronzi, e quindi non potevo che immedesimarmi. Insomma una specie di manifesto generazionale anni dieci.
Canzone: Drunk Drivers/Killer Whales.

#3 Bon Iver – 22, A Million

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Chi mi conosce sarà sorpreso di scoprire il nuovo disco di Bon Iver solamente alla posizione #3.
Un motivo è che è si un disco mostruoso, ma anche un po troppo sperimentale, un altro è che evidentemente quest’anno ci sono stati dei dischi superiori.
Il terzo lavoro di Bon Iver, abbastanza corto (35 minuti), è stato preceduto da teaser, anticipazioni, anteprima di grafica, quindi l’hype era decisamente alto.

Ammetto che i primi ascolti sono stati quasi shoccanti. Una accozzaglia di suoni distorti, campionamenti rubati da Stevie Nicks e Paolo Nutini, fruscii, nastri rovinati. Poi piano piano è cresciuto fino a diventare la colonna sonora della mia permanenza nella isola canaria.
Rimane comunque il personaggio musicale più interessante del secondo millennio, capace di stravolgere completamente la struttura dei suoi tre dischi: il primo acustico e minimale, il secondo ridondante e superprodotto, e questo terzo sperimentale ed elettronico. Non è un caso però se i pezzi migliori siano “33 GOD” e “29 #Strafford APTS”, che sembrano provenire rispettivamente da “Bon Iver “ e da “For Emma”.

Insomma, la caterva di collaborazioni alle quali Justin Vernon è stato chiamato a suonare o produrre, da Kanye West a The Staves,  alla fine hanno avuto decisive ricadute su questo terzo lavoro, che, con le dovute proporzioni e distanze, potremmo definire un po il “Kid A” degli anni dieci. Non rimane che aspettare quale nuova direzione prenderà il prossimo disco di Bon Iver. Nel frattempo mi godo questo 22, A Million ripensando alle mie lunghe passeggiate sulle dune sotto il sole di Gran Canaria.
Canzone: 33 “GOD”

#4 Owen – The King of Whys

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Facciamo un passo indietro: Owen è Mike Kinsella. Uno dei Kinsella brothers dei Joan of Arc, e sopratutto quello che ha fatto diciassette anni fà un dischetto di nome American Football. Se non lo conoscete andatevi a sentire i suoi primi tre album, sono tre piccoli capolavori. Poi si è un perso per strada, fino a sfornare questo “The Kings of Why” nello stesso anno del ritorno degli American Football. La cosa assurda è che questo lavoro è decisamente più bello del grande ritorno degli AF.
Chitarre acustiche, preziosi arpeggi, delicate note di piano, batterie storte come le sanno fare solo Chicago, e testi non proprio allegri. Prodotto dal batterista di Bon Iver, questo disco è stato il vero ritorno dell’anno, l’ho consumato mentre guidavo verso i lidi ravennati tra Agosto e Settembre, e per me sarà per sempre un inno alla natura e alla spensieratezza.
Canzone: Settled Down

#5 David Bowie – Blackstar

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Parlavamo dei nuvoloni neri carichi di pioggia nel disco di Nick Cave, ma qui siamo addirittura oltre. Questo più che un disco di uno dei personaggi più iconici della storia del rock, è il suo epitaffio.
Scritto durante la fase finale della sua malattia, Il disco è stato pubblicato nel giorno del sessantanovesimo compleanno dell’artista, ossia l’8 gennaio 2016, due giorni prima della sua morte. Questa circostanza ha ovviamente creato un alone di misticità che non ha fatto altro che aumentare l’hype verso un lavoro comunque di notevole spessore.
Si perché il duca bianco, camaleontico come sempre, anche questa volta volta aveva rimescolato le carte, scrivendo un disco virato sul jazz, grazie anche ai meravigliosi sassofoni di Donny McCaslin e alla batteria di Mark Guiliana.
L’ascolto non è facile, tra atmosfere cupe, liriche che sanno di morte, tempi sincopati e chitarre rumorose, non ci sono pezzi radiofonici, anzi sono piuttosto crudi e di lungo minutaggio.
Di sicuro un lavoro che lo rappresenta per quello che è stato e rimarrà per sempre ricordato come il suo testamento musicale.
Canzone: I Can’t Give Everything Away

#6 American Football – American Football

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Ci sono dischi più difficili di altri. Di solito il secondo ad esempio, se poi il primo è un piccolo capolavoro, e il seguente arriva dopo 17 anni di attesa, capirete che le aspettative diventano alte.
E questo è il motivo per cui questo disco non sta più in alto in classifica, perché obiettivamente è un disco bellissimo, con le melodie giuste, gli arpeggi barocchi, le batterie straordinariamente storte, e pure le trombe malinconiche, non manca nulla. Il problema è che in realtà niente di nuovo è stato aggiunto a quel capolavoro che uscì nell’autunno del 1999 e che ascoltai per la prima volta nel Pandino di Stefano.
Canzone: Born To Lose.

#7 Lambchop – FLOTUS

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Questo è un disco della madonna. Scaricato quasi controvoglia pensando sia l’ennesimo capitolo della pur bella storia del gruppo del Tennesse, già al primo ascolto la rivelazione. Di primo acchito ovviamente colpisce la scelta di Kurt Wagner di scoprire a 58 anni suonati il vocoder. E deve essersi divertito un mondo, perché ne ha messo in quantità industriale, in un ambito che non era certamente il suo. E la cosa incredibile è che funziona. Questo lavoro è una ventata di novità primaverile in una lunga discografia che dopo undici capitoli stava iniziando ad essere un po asfittica. In realtà non è solo il vocoder la novità, ma anche i synth e le batterie elettroniche, che, sopratutto nei due lunghissimi pezzi (12 e 18 minuti) trasportano l’ascoltatore in un piacevolissimo viaggio sospeso tra atmosfere sognanti, spazi da colmare, e note leggere.
Canzone: The Hustle.

#8 Cass McCombs – Mangy Love

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Lo tenevo d’occhio da un po, ma gli mancava sempre il guizzo per fare breccia nel mio cuore di granito. Con questo Mangy Love c’è riuscito in pieno, ed ogni volta che lo riascolto penso a me che cammino per i grandi viali di Madrid con le cuffie in testa.
Autore di un pop raffinato con venature sbilenche alla Pavement, il disco si fa ascoltare benissimo e ascolto dopo ascolto cresce sempre più. C’è un po di Marvin Gaye, un po di Al Green, ma sopratutto mi ha ricordato un altro disco che ho amato: Impossible Spaces di Sandro Perri. Sarà per gli arrangiamenti delicati, per i flauti pastorali, o per le atmosfere tropicaliste. Insomma un grande disco adatto per ogni stagione.
Canzone: Cry

#9 Jesu/Sun Kil Moon – Jesu/Sun Kil Moon

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Per chi come me, è cresciuto con le note malinconiche dei dischi dei Red House Painters, scrivere dell’ennesimo disco di Mark Kozelek è difficile, e spesso i bei ricordi del passato ci spingono a perdonare certi dichi un po così, (come il tanto incensato Benji ad esempio).
Anche questa volta il vecchio Mark sembra averci messo alla prova: la sorprendente collaborazione con Jesu, si traduce in un inizio di disco con chitarroni metal, e batteria slowcore che spiazza l’ascoltatore medio, almeno quello dell’ultimo minuto, abituato a corde di nylon e parole sussurrate.
In realtà dopo qualche ascolto ci si abitua e le canzoni cominciano a prendere un senso. Quando arriviamo alla seconda parte del disco poi, subentra una leggera batteria elettronica, i synth, e le atmosfere rarefatte, ed ecco che torna la magia che solo Mark sa mettere nei suoi lavori, ma in un modo ancora diverso.
Difetti ce ne sono, per carità: pezzi troppo lunghi, monologhi invece pezzi cantati, la consueta tendenza a lasciare perdere la melodia per vomitare centinaia di parole a cui francamente si fa fatica a stare dietro ( in una canzona addirittura si mette a leggere le mail dei fans!)
In un pezzo dove parla del defunto Chris Squire arriva a sorpresa Will Oldham ai cori. Non sarà l’unico ospite pesante, ci sarà spazio anche per Rachel Goswell e Issac Brock.

Canzone: Exodus

#10 M. Ward – More Rain

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Da 15 anni il nostro eroe sforna dischi che sono piccoli gioielli di folk americano. Questa volta il tema centrale è la pioggia, anche se la copertina è rosso fuoco.
Come sempre i segno distintivi sono il classico reverbero ribattuto anni’50, i cori sognanti e la sua voce col naso chiuso. Le tracce elettriche sono aumentate e in “Temptation” ci sono un paio ospiti ingombranti come Peter Buck e Scott McCaughey. C’è pure spazio per qualche tromba, un paio di slide, un synth e addirittura una cover dei Beach Boys.
Canzone: I’m Listening


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