Archivio per luglio 2020

Metà anno.

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Non ci si crede, ma siamo già a metà anno. Io non credo nemmeno alla sfortuna, tantomeno a quello che si dice degli anni bisestili, ma considerato che mi sono fatto tre mesi di arresti domiciliari, e in questo momento sono a casa a grattarmi i pollici invece di lavorare a Ibiza, inizio a farmi qualche pensiero.

Tornando a noi, una volta oltre al classificone di fine anno, facevo pure un INO a metà, ma quest’anno tra Covid e crisi di ispirazione che c’è in giro metto solo quello che mi ho ascoltato in ordine alfabetico, ci rivediamo a Dicembre per la classifica vera e propria.

Waxahatchee – Saint Cloud.
Un gradevole dischetto indie-country, senza picchi e senza cadute di stile. Una voce al limite dello sgradevole che però piace proprio per questo.

Tame Impala – The Slow Rush.

Sempre anticipati da ingombranti hype, i nostri amici australiani fanno l’ennesimo dischetto con un paio di canzoni decenti, un paio di idee carine, e qualche giochino di produzione

godibile.
Real Estate – The Main Thing
Disco un pò inutile, adatto solo a chi si avvicina a loro per la prima volta. Per il resto non fanno altro che suonare la stessa canzone all’infinito.
Perfume Genius – Set My Heart on Fire Immediately.
L’hanno venduto come il capolavoro di Mike Handreas, quando in realtà lo er il precedente-meraviglioso “No Shape”. Si vede che è meno tormentato, non so, ma lo spessore e i testi sono quattro spanne sotto.
Ray LaMontagne – Monovision.
Non ho mai avuto troppa voglia di approfondire Ray, ma questa penuria di dischi da 2020 mi ha fatto scoprire questo cantautore d’altri tempi che si merita di entrare in classifica con un
disco pieno di mestiere.
Pearl Jam – Gigaton.
Non nemmeno io perché ancora li ascolto, forse perché sono della generazione grunge e ci sono cresciuto, peccato che da quando c’è Matt Cameron alla batteria sono ogni volta più imbarazzanti. Come al solito si salvano le 2/3 ballatone, il resto si può buttare nel rusco.
Owen – The Avalanche
Lo sapete, Mike Kinsella è uno dei miei eroi, e il precedente “The King of Whys” è forse il più bello della sua carriera. Con un pò di disappunto devo dire che questo invece è un pò piatto, nonostante la produzione di “Bon Iver” Sean Carey gli manca quel brio e le batterie del precedente, però il mestiere c’è sempre.
Neil Young -Homegrown.
Non si capisce cos’è: un vecchio disco rimasto nel cassetto per 40 anni, una raccolta di inediti e b-side, rifacimenti di pezzi. Non importa, è il Neil del momento figo, quello della depressione, della droga e tutto il resto. Per gli amanti di Neil ma anche per chi si vuole avvicinare.
Morrissey – I Am Not A Dog In A Chain.
Gli ci voleva il gradevole disco di cover dell’anno scorso per trovare la verve perduta ( e per buttare quelle chitarre metal del cazzo) Niente di eccezionale, chiariamo: non saranno gli Smiths, al almeno non è fastidioso come certi ultimi lavori.
M. Ward – Migration Stories.
Non se lo caga nessuno da anni, ma continua imperterrito a scrivere piccoli gioellini di dischi che ahimè, sarò tra i pochi ad ascoltare.
Four Tet – Sixteen Oceans.
E’ un disco strano, ancora devo capirlo, di sicuro è un pò slegato. Ci sono dei pezzi ambient alla Brian Eno, ma anche delle casse dritte che sembra di essere a Berlino.
Destroyer – Have We Met.
Dopo due bei dischi e uno disastroso, avevo ben poche speranze, invece incredibilmente i nostri amici canadesi per adesso hanno sfornato la cosa più godibile in questo anno disgraziato. Bello dall’inizio alla fine.
Damien Jurado – What’s New, Tomboy?
Ormai abbiamo perso il conto. Ogni anno, puntuale come la morte, pubblica un album. A volte più riuscito, a volte meno. A volte scarno, a volte pomposo. Questo gli è venuto veramente bene.
Cowboy Junkies – Ghosts.
Loro sono miei idoli da quando fecero quella meraviglia del disco tributo a Vic Chessnut. Nel 2018 tornarono con un album dopo una pausa di 6 anni, per questo rimasi sorpreso quando uscì questo “Ghosts”. Probabilmente sono gli outtakes di quel disco, però facciamo finta di niente e ce lo godiamo.
Caribou – Suddenly.
La dimostrazione di come si possa fare musica elettronica interessante nel 2020, mescolando generi diversi, senza mai cadere nel becero o cercando la facile affermazione.
Car Seat Headrest – Making A Door Less Open.
Ci avevo puntato molto, gli ultimi due dischi erano stati una grande ventata di freschezza. Questo? Meh. La produzione a cazzo certo non aiuta, gli inserti elettronici neppure.
Daniel Blumberg – On&On&On.
Ha fatto le scuole buone con i Yuck che andavo a lezione dai Pixies, poi si è esaurito, ha perso tutti i capelli e ha fatto due dischi solisti (con Jim White alla batteria) andando a lezione da Bonnie Prince Billy. Una bellissima conferma.
Bombay Bicycle Club – Everything Wrong Has gone Wrong.
Si erano sciolti. Hanno provato a fare altre cose come solisti. E come dice una canzone del disco “Everything else has gone wrong”. Ecco, meglio che ci hanno ripensato.
Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways.
C’è un pezzo che dura 17 minuti. E’ quasi spoken word. Metà del disco suona uguale. Eppure è meraviglioso, provatelo mentre guidate da soli di notte. Come farà il mondo quando non ci sarà più? Non voglio pensarci.

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