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Micah IV

Ho perso il conto dei suoi concerti, ma credo di essere almeno al quarto o qunto. Seguo il folletto texano dalle grandi orecchie a sventola da quando nel 2008 uscì Micah P. Hinson And The Red Empire Orchestra  e fu subito amore incondizionato. Nessun altro disco ha raggiunto quei picchi di emotività, però continuo a seguirlo ed ascoltarlo fedelmente come fosse un vecchio amico.

Per la prima non ho dovuto fare km per andare al Bronson o all’Hana-bi (dove è di casa) perchè ironia della sorte, ieri suonava proprio a casa mia, e infatti sono andato fino al teatro sperimentale a piedi. Fa sempre strano assistere a un concerto seduti, una volta mi faceva schifo, ma ora, a questa veneranda età, inizio ad apprezzarlo.

Un tour europeo di una quindicina di date, dove nove sono solo in Italia, fa capire quanto Micah sia ormai entrato nelle grazie di questa terra (una delle cose inspiegabili di questo paese) Non solo, disco registrato in Italia, con componenti italiani, gli stessi che si sta portando in tour. E devo dire che i due compari sono proprio bravi, finalmente un concerto con dei bei arrangiamenti e non buttato in caciara come è spesso fare. Suoni impeccabili, voce completamente fuori dal mix come al solito, e colpisce anche la totale mancanza di reverberi o effetti, in totale contrasto con l’andamento generale della musica attuale dove vocoder e autotune tendono invece a mascherarla il più possibile.

Insomma, Micah promosso come sempre, e pure Pesaro, che per una notte è stata con due concerti in contemporanea, una vera capitale indie. Per una notte, eh.

Micah.

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Non so quante volte ormai visto Micah P. Hinson in concerto. Almeno cinque, e sempre a Ravenna e dintorni.

Dal 2006 quando sentii per la prima volta quel disco magico con una donna senza testa in copertina, me ne innamorai perdutamente, ed ogni volta che ritorna dalle nostre parti è d’obbligo andarlo a sentire. Da solo, col gruppo, con la moglie, col rodie che suona il banjo. L’ho visto e sentito un po in tutte le salse. Ma ogni volta è diverso.

Passata la sensazione di straniamento iniziale, ed accettato il suo modo di distruggere le sue stesse canzoni, ogni volta è un viaggio dentro le sue melodie e i suoi fantasmi.

Il fisico è sempre quello mingherlino, le orecchie a sventola, i capelli leccati all’indietro, la sigaretta col bocchino, e adesso anche il bastone dopo l’incidente in Spagna. Non ci sono dischi in uscita, quindi pesca a caso nella sua mente offuscata mente sorseggia succo d’ananas e lotta contro accordature impossibili imprecando a denti stretti.

Per fortuna il Bronson non è ancora un forno e ci sono comodo sedie per la mia malandata schiena. I bicchieri di vino prima del concerto mi fanno stare con la mente leggera nonostante il fantasma di Tom Joad continui ad aleggiare per le strade di Ravenna, forse non me ne libererò mai.

Menschen am Sonntag

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Un Sabato alternativo. Quando vidi il cartellone del concerto dei Mum (con la solita grafica orripilante) a Riccione stentai a crederci, poi lessi meglio, e nonostante si trattava di una sonorizzazione live di un film muto tedesco degli anni ’20, mi decisi ad andarci comunque.

Ieri finalmente era la serata. Ho rischiato di rimanere fuori visto che i biglietti erano praticamente esauriti, arrivato sul posto, lo Spazio Tondelli, mi accorgo che è una specie di teatro moderno, lungo una via che ho percorso migliaia di volte senza accorgermene, dedicato appunto al grande scrittore scomparso. La sedia, che poi si rivelerà un duro sgabello da bar, è posizionato in piccionaia, solo che il teatro è ortogonale e sono dietro una bellissima colonna. Faccio l’anarchico e la trascino più avanti, così perdo un po di stereofonia, ma guadagno decisamente in visuale.

Il palco è ovviamente completamente sgombro al centro, e ai due lati ci sono due dei quattro(?) Mùm, quello a sinistra vestito da impiegato con un piano digitale, un macbook e una scheda audio, e quello a destra, Thor vestito da Uomini&Donne, con un mixer, qualche synth e altre diavolerie elettroniche.

Parte il film, e alle prime schermate in lingua tedesca scende il panico fra il pubblico. Poi la storia procede lenta, dandoci uno spaccato di vita vissuta a Berlino negli anni ’20. Gente felice, benessere, prosperità. Tutto fa pensare che dopo solo ventanni tutto verrà spazzato via da una guerra spaventosa. In realtà questo è il mio pensiero, la trama del film non è molto chiara, o almeno non si è capita benissimo. Non importa, doveva essere “la scusa” per sentire il duo islandese dal vivo, e anche se le dinamiche del film non sono state seguite bene, la musica è stata sempre gradevole, e il loro marchio di fabbrica sempre evidente.

Uscito da lì, in mezzo a tutta quella gente finto-alternativa-radicalchic-parka-clarks mi è venuta una gran voglia di sbronzarmi con della vodka&rebull. Uber Alles.

 

Sliding Doors.

L’altra sera c’è stato il concerto di Morrissey a Cesena. In pratica uno dei personaggi più fighi dell’universo a 50km da casa mia.

E io non ci sono andato.

Un pò non lo sapevo, un pò lo sapevo e non mi sono ricordato, fatto sta che me lo sono perso pure questa volta. Come quella volta che fece il mega bidone al Velvet, ed io ci rimasi malissimo.

Da quella volta si sono susseguite voci su una sua presunta malattia che lo starebbe portando alla morte, concerti annullati all’ultimo momento, o interrotti perchè fuori il palazzetto c’era il piadinaro che vendeva la porchetta di nascosto.

nel frattempo ha fatto un paio di dischi, uno buonino, e uno un pò così, ma non andare a questo concerto è stato veramente da coglioni, forse non ci sarà mai più la possibilità, e comunque non sarà mai così a portata di mano.

Ma certe cose vanno prese al volo, sliding doors dicono, e anche questa volta il treno l’ho perso. Per recuperare mi sono andato a cercare la scaletta del concerto e stasera me la sono sparata. Ma ero in camera mia e non è stato proprio lo stesso.Schermata 2015-10-10 alle 01.16.02

Owen Bancale.

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Finalmente anche quest’anno sono riuscito a fare un salto in quel piccolo pezzo di paradiso che è l’Hana-bi. Finiti i grossi festival finalmente inizia anche la mia estate.

Quindi gambe in spalla, e mezzora prima della chiusura mi fiondo sulla E45 e nella solita ora e mezza di buca e temperature africane sono sotto l’insegna di marina di Ravenna. L’occasione era per il concerto di Owen Pallett, di cui ammetto la mia colpevole ignoranza. Ma mi era bastato leggere la sua biografia di arrangiatore negli Arcade Fire e sopratutto co-autore della colonna sonora di Her per convingermi a fare la sfacchinata.

Prima dell’inizio un piccolo thriller: normalmente questo è uno dei posti più precisi sull’orario di inizio, ma stranamente alle 22 ancora tutto taceva, poi vedo che i tecnici fanno un repentino cambio di mixer, e allora capisco che ci sono stati non pochi problemi. Alla fine riescono a trasferire le memorie e si parte anche se sono già le 23. Entra Owen armato di violino e inizia da solo dimostranto un ottima tecnica e un uso spregiudicato del looper. L’impianto un nuovo Electro-Voice è posizionato in modo da uccidere anche le formiche che osano passare davanti, e questo crea due buchi laterali di pubblico che mi permette di avanzare fin quasi il fronte palco. Riesco a vedere Owen da vicino e mi accorgo che non guarda MAI il pubblico: tieni gli occhi chiusi oppure guarda al cielo in espressioni che sembrano cercare improbabili madonne.

Dopo qualche pezzo arrivano gli improbabili componenti della band: un chitarrista ciccione la cui utilità è pari a zero, e un batterista dall’aspetto a metà tra un vampiro e un porno attore.

Il concerto dura un oretta e pur non conoscendo nessuna canzone scorre bene sebbene i volumi siano troppo alti, considerando anche il genere suonato. Alla fine del concerto è già tardi per il programmato bagno notturno, e dopo una gradevole passeggiata sul bagnasciuga ravennate, ci avviamo sulla lunga via del ritorno, questa volta la Romea come da tradizione.

Barzin vs. Micah

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Ci risiamo, ennesimo concerto del mio beniamino Micah P. Hinson, ed ennesima sensazione straniante di genio incompreso che si butta via/è intelligente ma non si impegna/cazzo senti che voce/minchia è veramente un cazzone.

Ancora una volta il buon Chris lo ha invitato a suonare in terra ravennate, e questa volta era per festeggiare il decennale del primo disco: Micah P. Hinson And The Gospel Of Progress uscito in realtà nel 2004.

Il timore che si presentasse con la sguiata moglie alla batteria è svanito presto vedendo un palco spoglio, il suo solito Shure SH55, e un Fender Twin. Concerto acustico quindi, ma poi neanche tanto, visto che alla consueta Seagull ricoperta di adesivi, alternava un chitarrone finto vintage che ha pure avuto il tempo di battezzare un attimo prima chiamandola “fuckin’ guitar” perchè non riusciva ad accordarla.

E se il concerto era partito bene, con un Micah stranamente preciso e incredibilemente senza sigaretta e bocchino d’ordinanza, poi nel finale ha sbroccato come al solito. Che poi finale è un pò riduttivo visto che ha suonato due ore e la seconda metà è stato il solito delirio di accordi dimenticati, chitarre che non si accordano, pedali che non funzionano, presentazioni in pompa magna di canzoni che verranno interrotte pochi secondi dopo l’inizio. Il caldo non aiuto e piano piano il pubblico inizia a rumoreggiare al bar con cafoneria assoluta e si becca pure il cazziatone di Micah, ma a questo punto ogni logica è saltata e dopo aver raccontato che diventerà padre e che il figlio in grembo non apprezza gli Interpol, si mette a suonare un pezzo loro e nel finale pure una cover dei Nirvana.

E dire che la serata era iniziata con il garbo del timido Barzin, forse l’artista più underrated del panorama indie, che ci delizia di un concerto stringato che ammalia anche i tanti che ancora colpevolmente non lo conoscono. La speranza è di rivederlo in un concerto tutto suo, con la band, e gli arrangiamenti e i cazzi vari, ma la sensazione è che tornerà in Canada a lavorare in ufficio.

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Make it bun dem

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E così nonostante la mia veneranda età, ieri sera mi sono voluto togliere uno sfizio: andare a sentire Skrillex dal vivo. Che poi, uno che mette su i dischi dal vivo fa un pò ridere, vabbè.

Premetto che il suddetto era al Cocoricò, noto discoteca popolata da vacanzieri cafoni che dista mezz’ora da casa mia, e che ironia della sorte, nel parco sovrastante c’era la prima giornata del Tafuzzy Day, noto festival indie fatto di Vans e chitarrine innoque.

Insomma, ero lì per il festival, grazie alle mie sconfinate conoscenze ho rimediato un accredito a superscrocco, e sono entrato in piramide. Fuori nel frattempo si erano erette cancellate che neanche a Guantanamo, e c’erano pure le bancarelle abusive che vendevano le magliette come nelle migliori occasioni.

Dentro l’aria era talmente pesante che si poteva tagliare col coltello, e l’età media era di circa diciasette anni, gli accenti più partenopei che romagnoli. In consolle c’era Congorock che ha fatto un set tiratissimo e alla fine dei conti molto più ballabile del capellone ex-metallaro. Ero in rehab, quindi non ho toccato alcol nonostante ogni tanto mi sfiorava il dolce odore di una Red Bull a coprire le ascelle potenti che solo un adolescente con gli ormoni esplosi può avere. Verso le 2,30 inizia il set Skrillex, ma la piramide è talmente imballata che rimango ai margini della pista e non riesco nemmeno a vedere che faccia ha (dicono sia parecchio brutto NDR.)

In realtà la curiosità maggiore era di sentirlo con un impianto adeguato, e lo stack di FunktionOne  era un ottimo banco di prova. Purtroppo devono avere avuto qualche limitazione di troppo, visto che il volume era più basso del solito, e sono tornato a casa senza fischi nelle orecchie. Il suo set è fatto di pezzi suoi a volte rimaneggiati, a volte tali e quali al cd, mixati insieme ad altre cose fuori contensto tipo Intergalactic dei Beastie Boys.

Dopo un oretta mi era già rotto i coglioni, anche perchè era un orario indecente e il mattino seguente dovevo lavorare, quindi ho abbandonato la nave mentre i bar avevano già smesso di servire alcolici ed io per una volta non mi aggiravo come come un assetato nel Sahara.

Micah #3

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Era il 2008 quando scopri quel piccolo gioiello di disco che è Micah P. Hinson and the Red Empire Orchestra. Un capolavoro fatto di canzoni strazianti, di amori perduti, languidi accordi di chitarra acustica, e avvolgenti arrangiamenti orchestrali.

Poi successe che lo vidi live la prima volta, insieme a un batterista che quasi sicuramente era un rodie oppure il suo vicino di casa, e una tizia improbabile alla tastiere. Il risultato fu straniante e controverso. Lo vidi un paio di anni dopo in completa solitudine: voce, chitarra acustica, occhiali e bocchino per le sigarette. Stessa sensazione. Ieri che ho avuto la fortuna di assistere a un suo concerto per la terza volta ero preparato. Molto meno altra gente che a fine serata girava per l’Hana-bi sbrontolando di quanto sia un cazzone, e di come stesse sprecande un innegabile talento e una voce tanto carismatica.

Io annuivo sorridendo ripensando alla mia prima volta, ed al fatto che gli artisti vanno presi per quelli che sono, prendere o lasciare.

E allora tutte le volte che ascolto un suo disco, penso ai piccoli disastri che fa live, e capisco di come la sua vita sia stata ed è immensamente incasinata, e di come lui la esorcizza componendo piccoli capolavori e aspirando sigarette da un bocchino come se fosse ossigeno vitale.

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Songs for a Blue Guitar.

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Non si dovrebbe mai conoscere i propri idoli.

Alla fine si rimane sempre un pò delusi. Sono sempre un pò più bassi di come te li aspetti, più brutti, più vecchi, o più antipatici.

In realtà questa data di Mark Kozelek era stata programmata mesi fa, mi ero preparato bene, ascoltando tutti i suoi dischi, da quelli imperdibili marchiati Red House Painters, a quelli dove gli ha dato di matto e sembra che si sia iscritto a un corso di chitarra spagnola.

Sapevo anche che sarebbe una serata austera, luci basse, niente foto, niente video, nessun afterparty. Un concerto solo voce e chitarra classica. Non resistendo ero pure andato a vedermi i setlist degli ultimi concerti autospoilerandomi quello di ieri sera.

Come mai questo astio direte voi? E’ presto detto. Quando ci sono dei problemi tecnici così gravi in un concerto, la colpa è sempre di due persone: il fonico e l’artista. Ora, io non ero presente al soundcheck, e non sono al corrente delle indicazioni di Mark, ma non puoi compromettere la prima mezzora di un concerto con suoni terribili, reverberi che neanche Paul Chain nei suoi migliori incubi, artista che si mette a sfottere il fonico, e che se ne frega del pubblico spostando il microfono e cantando a voce nuda col risultato che tre quarti del pubblico non sente nulla.

Ora voi direte che sono artisti, che Mark ha avuto una giovinezza “movimentata” e che il suo equilibrio psichico sia decisamente altalenante, lo dimostrano i suoi dischi, e i suoi sbalzi di umore, però c’è sempre un limite di rispetto che si deve avere con chi lavora per te, e per chi si fa kilometri per venirti a sentire.

Per il resto il concerto è stato esattamente come me lo aspettavo: Austero. Mark in camicia nera, chitarra classica (accordata in maniera maniacale ad ogni pezzo), DI e voce. Repertorio esclusivo degli ultimi due dischi Sun Kil Moon e Desertshore, nessuno spazio per i fronzoli, luci o ruffianate. Mi ha sorpreso la sua loquacità, e il fatto che ignorasse completamente in quale città fosse.

Concerto lungo, intorno alle due ore, con il Bronson miracolosamente pieno di trenta/barra/quarantenni che hanno versato fiumi di lacrime in dischi che hanno segnato la nostra fragile gioventù, e che speravano che almeno gli sarebbe stata data una piccola concessione.

Non si dovrebbe mai conoscere i propri idoli.

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Damien Jurado

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Una volta andavo a vedere un sacco di concerti, tanti kilometri, soldi, fatica, sudore e fatica. Ora che l’anzianità incombe vado solo a pochi e mirati concerti, quasi sempre sono a Ravenna: Bronson o Hana-bi. Probabilmente io e Chris abbiamo gusti abbastanza simili.

Da qui a Maggio ci tornerà per altri due concerti da novanta, ma intanto vi racconto di quello di ieri sera.

Damien Jurado è entrato da non molto tempo nel mio freddo cuoricino, era l’inverno del 2010, non avevo ancora una casa tutta mia, e passavo un sacco di tempo in macchina con la mia neocompagna gaggia per difendermi dal freddo vagando a caso per le colline riminesi, mentre l’ipod suonava pezzi in modalità random, ogni volta che arrivava un pezzo del nostro boscaiolo di Seattle mi si smuoveva qualcosa. Poi l’anno scorso è arrivato Maraquopa ed è scoccato il grande amore, tant’è vero che è finito al terzo posto nella classica 2012.

Partiamo presto, pessima pizza e pesante pezza per strada, e in un oretta la fida ClasseA ci porta al circoletto degli anziani dove si brinda a spritz e prosecco. Quando entriamo il Bronson si è trasformato in cinema di periferia con le sedie davanti al palco e una temperatura subtropicale all’interno. Una novella Joni Mitchell ci delizia con graziosi arpeggi e una voce che ricorda un pò troppo l’illustre canadese.

Mezzoretta e cede il posto al nostro eroe che per andare nel backstage mi sposta dicendomi “scusa” in italiano sicuro.

Il palco è spoglio, lui suona seduto su una sedia imbracciando una Jasmine da pochi dollari e indossa una camicia a scacchi d’ordinanza. Sembra un pò rincoglionito ma è solo timidezza, le prime chiacchiere le fa solo a metà concerto e racconta anedotti sulla sua inadeguatezza alle  temperature italiane d’Agosto, e di quanto si senta a casa sua adesso con la pioggia, il freddo e il buio. Il viso è un incrocio tra Mark Lanegan e un attore comico americano di cui non ricordo il nome e gli occhi sono perennemente chiusi.

Sembra che abbia del cotone in bocca come Marlon Brando nel Il Padrino, è un omone grande e grosso, ma quando inizia a cantare esce una vocina che non capisci da dove venga. Spesso si fa aiutare da un pedalino della Tc che gli sdoppia le voci in un altra tonalità e capisci che lo usa in quasi tutti gli ultimi dischi.

Ci sediamo in terra perchè intanto il Bronson è pieno, e siamo abbastanza davanti ma di fornte alla porta del bagno che sarà foriera di rumori molesti e spifferi glaciali per tutto il tempo. Il tempo vola con il nostro eroe che saccheggia pesantemente dagli ultimi due dischi e concedendo qualcosa alle produzioni più vecchie. Finito l’ultimo pezzo scende direttamente in mezzo al pubblico e va a rifugiarsi nella zona merch.

Veloce viaggio di ritorno e le mie fatiche vengono premiate con i quasi/bignè fatti il giorno prima. Il prossimo è Mark Kozelek in Aprile, preparate i fazzoletti.

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