Archivio per dicembre 2013

#1 Yo La Tengo – Fade

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Al primo meritatissimo posto gli amati Yo La Tengo, che un po’ come i Low, a distanza di anni riescono ancora a fare dischi della madonna senza essere ripetitivi ed emozionando come fosse la prima volta.
Già la bellissima copertina anticipa la grandiosità delle melodie, la spazialità e le atmosfere delicate e psichedeliche allo stesso tempo.
C’è spazio anche per i pezzi dove i tre si divertono a prenderti e prendersi in giro, ma il simbolo del disco sono le lunghe cavalcate con le chitarre sognanti e il cantato sussurrato, magistralmente registrate dal mostro sacro John McEntire. Il risultato è qualcosa che ricorda molto il loro apice I Can Hear the Heart Beating as One, chi lo conosce sa perché.

#2 Volcano Choir – Repave

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Più che il secondo disco dei Volcano Choir, sembra il terzo disco di Bon Iver. Abbandonate le sperimentazioni elettroniche, ritroviamo le batterie e le chitarre acustiche, le melodie della casetta sotto la neve, e le maestosità a cui ci ha abituato Justin Vernon.
La stessa maestosità di un mare del nord in tempesta che già dalla copertina (la più bella dell’anno)ci anticipa il mood del disco.
Un po’ più minimalista del solito, niente elettronica, una sola batteria (ma che batteria!) chitarre acustiche, niente fiati, qualche falsetto e un po’ di vocoder che agli americani piace sempre, non solo ai negri.
Primi quattro pezzi da disco-capolavoro, poi si siede sugli allori e tende a vivere di rendita fino alla fine.

Canzone: Comrade.

#3 Daft Punk – Random Access Memories

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Atteso come un messia, il nuovo disco del duo francese ha spiazzato fan e critica con una mossa tanto semplice quanto astuta: riesumare il baraccone della dance music anni ’70 e unirla ai suoni daftpunkiani. Per farlo hanno preso il meglio che si potesse trovare in giro: Giorgio Moroder, e Nile Rodgers degli Chic. E la sua chitarra funky è il simbolo di questo disco, così uguale e così diverso da quello che si poteva ascoltare in una discoteca negli anni ’70.
Questo è anche un disco molto suonato, ci sono quasi tutte batterie vere, tra l’altro suonate da mostri come Omar Hakim
e John JR Robinson, stesso discorso per il basso, con Nathan East
che spadroneggia per tutto il disco. Per non sbagliare i francesi hanno pure piazzato una serie di guest da far paura, in primis re mida Pharrell Williams, ma anche Panda Bear, Julian Casablancas e altri ancora. Ovviamente i pezzi con Pharrell si elevano su tutto il disco, subliminandosi nel singolone perfetto Get Lucky. In realtà il mio pezzo preferito è quello in cui un vero Giorgio Moroder racconta in prima persona i suoi esordi come musicista squattrinato in un pezzo da nove minuti dove c’è condensata tutta la storia di questo disco.

Canzone: Giorgio by Moroder

#4 Low – The Invisible Way

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Ha ancora senso un disco dei Low nel 2013? Dopo vent’anni e una dozzina di lavori, tra alti e bassi, si pensava che avessero già dato tutto. E invece vi sfido a guidare di notte, e quando il riproduttore casuale sceglie un pezzo di The Invisible Way,  non rimanere estasiati dalla maestosità delle canzoni che il trio del Minnesota è riuscito a creare con un pianoforte, una chitarra, e una batteria  manco intera. Probabilmente una bella fetta di merito va attribuita anche alla produzione di Mr. Wilco Jeff Tweedy.
Ovviamente bisogna essere predisposti ai pezzi slowcore strappalacrime, agli arrangiamenti minimali, e alle melodie trascinanti, perfette per  una persona dal cuore infranto che vuole solo versare lacrime in solitudine.

Canzone: So Blue

#5 Vampire Weekend – Modern Vampires Of The City

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Giunti alla terza prova, i vampiri del weekend ci regalano un altro bel disco dei loro, divertente e con un occhio che guarda ai Clash di Sandinista, e l’altro a Graceland di Paul Simon.
Di sicuro uno dei dischi più ascoltati di questo disgraziato 2013, anche perché è uscito tra i primi, ma ancora si fa ascoltare con piacere. Persa un po’ la carica punk degli esordi, i vampiri si divertono da matti coi vocoder e i pitch shifter sulle voci, la produzione è la spinta in più in più e ci sono tante soluzioni “alternative” che sul momento ti fanno saltare sulla sedia, ma poi caratterizzano questo come uno dei dischi più divertenti dell’anno.

Canzone: Ya Hey

#6 Mark Kozelek & Desertshore – S/T

Mark Kozelek

E poi all’improvviso arriva lui, dal nulla. Per un attimo abbandona il pesante nome di Sun Kil Moon, e pubblica questo disco a nome suo, fatto con vecchi componenti dei Red House Painters, e da loro sembra proprio ispirarsi, con canzoni che sembrano essere rimaste nel cassetto per troppo tempo, e che sono troppo belle per non essere non pubblicate.
E così per un attimo Mark abbandona la chitarra classica che diciamocelo, ci aveva rotto un po’ i coglioni, e riabbraccia quella elettrica, anche se mancano gli assoli strappalacrime degli ultimi RHP, l’atmosfera sembra proprio quella, e quasi non ci credi che sono passati quindici anni dall’ultimo Old Ramon.
Se proprio dobbiamo trovargli un difetto, c’è una certa disomogeneità tra i pezzi, che fanno pensare non tanto a un progetto definito, ma a un insieme di canzoni pensate in diversi momenti della sua vita, e messe insieme per finire il disco.

Canzone: Livingstone Bramble.

#7 James Blake – Overgrown

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Era molto atteso il secondo lavoro di James Blake, il primo disco aveva lasciato a bocca aperta in molti, creando un proprio suono, fatto di elettronica minimalista,  ma fatta sempre con molta classe.
Devo dire che questo seguito non delude affatto, andando a ripercorrere gli stessi sicuri binari, se proprio devo trovargli un difetto, gli manca il singolone/cover che nel primo capitolo ci aveva fatto amare Feist ancora di più, e aveva fatto soffrire da matti i miei woofer.
La cosa incredibile, è che in realtà il pezzo ci sarebbe anche, questa volta di Joni Mitchell, ma stranamente è stata estromessa dalla scaletta, forse per evitare l’effetto fotocopia. Peccato, perché la forma c’è eccome, mentre sulla sostanza bisogna lavorarci ancora un pò.

Canzone: Digital Lion

#8 The National – Trouble Will Find Me

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Ok, lo so, è triste, è depresso, mette malinconia, ma ce ne fossero di dischi così belli. La formula è sempre la stessa, tristi ballatone dove si parla di frustrazione, amori finiti, e disperazione, ma fatte talmente bene che quasi ci si commuove. Le batterie pur muovendosi su spazzi ben definiti sono splendide e il suo lavoro di cesello è encomiabile. A trovargli un difetto la voce monotono a volte può essere pesante, ma è il loro marchio di fabbrica. Speriamo che le cose continuino ad andargli sempre male così continueranno a fare dischi così belli.

Canzone: Don’t Swallow the Cap

#9 Arcade Fire – Reflektor

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Era il disco più atteso dell’anno, un po’ tutti si sono espressi e hanno dato un giudizio, per altro piuttosto eterogeneo, l’unica voce su cui tutti sono d’accordo è il minutaggio: è troppo lungo.
Quella che sembra una banalità in realtà è andata a scalfire la qualità cristallina del gruppo canadese che tra l’altro non perde occasione per disorientare il suo pubblico cambiando continuamente.
Questa volta hanno deciso di affidare la produzione a Mr.James Murphy, e in effetti in diverse tracce si sente la sua mano pesante e a volte è quasi più  LCD che Arcade Fire.
Un disco, anzi due(!) che si presenta come una serie di lunghe canzoni, quasi mai collegate fra loro, della durata media che supera i sei minuti, alcuni reprise, e pure una ghost track francamente inutile.
Per il resto il livello rimane quasi sempre altissimo, e sicuramente questo sarà uno di quei dischi che ci accompagnerà ancora nel 2014.

Canzone: Afterlife

#10 Bill Callahan – Dream River

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Il fatto che abbia messo il Dio sceso in terra nell’ultima posizione della top ten non è casuale, è la mia piccola forma di protesta su un disco che è bello si, ma distante anni siderali dalla media del nostro eroe.
Questo è un disco svogliato, lo definirei un po’ il suo “Rain on Lens” della sua discografia solista. Un disco di voce e chitarra. Qualche violino alla Dylan di Desire, troppi legnetti, troppi flauti pastorali, e batterie lontanissime e mai protagoniste.
Sembrerebbe quasi un disco di B-sides, non voglio credere che questo sarà il nuovo corso del nostro amato Bill, che nel frattempo continuiamo a venerare, e sperando in un nuovo ” a river ain’t too much to love”.

Canzone: Ride my Arrow


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