Purtroppo ho iniziato ad ascoltarlo a classifica fatta, altrimenti sarebbe finito dritto in top ten. Poco male, lo inserico qui, meglio di niente. Disco d’esordio per questo sbarbatello di Newcastle, con 13 pezzi uno più bello dell’altro, in una strana formazione alla Bruce Springsteen, con tanto di assoli di sax e ritmi alla The War on Drugs. Voce potente e maturità nei testi, e uno spaccato dell’inghilterra di oggi, tra brexit, consuete sbronze britanniche, e Mexican Standoff.
Canzone: Will we Talk.
Forse l’ultimo disco del 2019, arrivato appena in tempo per entrare in classifica, più perchè gli voglio bene, che per il valore del disco. Non è che sia brutto, però è decisamente monocorde, il duo di Nashville già non era molto allegro prima, poi pare sia successo qualcosa di brutto a qualcuno a loro caro, e da allora è pure peggio. Questo disco è quasi interamente orchestrato, con qualche piccola parte di chitarra e qualche coro ogni tanto. Praticamente un unico flusso dall’inizio alla fine.
Canzone: Without Form and Void.
Hanno ancora qualcosa da dire? No. Però suonano cazzuti e quadrati, i suoni sono iper-prodotti e la batteria sfonda speaker che è una meraviglia. Insomma un’esercizio di stile per mostrare un pò i muscoli e poco più. In mezzo ci mettono pure un pezzo piacione (555) per le nuove generazioni, vabbè.
Canzone: Surviving.
Il loro esordio nel ’96 fece scalpore. Erano ancora i primi esperimenti elettronici, e loro si erano ricavati un loro posto con pieno diritto. Tanta acqua è passata sotto i ponti, loro si sono presi delle pause, poi sono tornati e siamo arrivati a questo 7° album. Ce n’era bisogno? No. Anche se parte benissimo, ma quando pensi che decolli, si schianta al suolo con soluzioni poco felici, anche se la sua voce ha sempre un buon perché.
Canzone: The New isn’t so You Anymore.
Disco minimale per il nostro eroe con qualche problema sociale. Ricordo di averlo visto al Bronson di Ravenna e sembrava quasi Rain Man. Però ci piace come canta e come suona, anche se questo disco non è a livello di quello precedente, e due arrangiamenti in più non facevano schifo. Se vi piace il primo Leonard Cohen è il vostro disco.
Canzone: Throw Me Now Your Arms.
Lo sappiamo, il personaggio è di quelli che fa incazzare. Una ricca viziata che ha il potere di avere grandi produttori e gente che gli scrive canzoni. A volte funziona, tipo il primo disco, oppure quello passato. Altre volte no, tipo questo. Disco lungo, monocorde senza guizzi, con testi ridicoli e con lei che sembra manco abbia voglia di cantare. E riesce pure a rovinare una canzone dei Sublime.
Canzone: Venice Bitch.
Come un fulmine a ciel sereno, arriva inaspettato questo EP di sole 4 canzoni, tutte sullo stesso stile, cantate quasi sottovoce, e suonate in un’atmosfera soffusa. Peccato solo che duri poco.
Canzone: Adora Venera.
Stereogum & soci stanno cercando di farla passare come un fenomeno, miglior disco dell’anno etc. La verità è che è un disco gradevole, ma come vedete rimane piuttosto in basso nella classifica. Le canzoni sono belle, ma questo cantato tipo usignolo dopo un pò rompe i coglioni, ed ascoltare l’album tutto di seguito è una vera impresa.
Canzone: Something to Believe.
Dopo una lunga sfilza di dischi azzeccati, con Here Comes the Cowboy siamo al primo (mezzo) passo falso. Il disco è stanco, ed alcuni pezzi come “Choo Choo” sono addirittura irritanti.
Canzone: All of Our Yesterdays.
Che disco strano. Hai in formazione un batterista come
Glenn Kotche, e gli fai suonare un disco intero senza toccare un piatto. Non so che genere di album aveva in mente Jeff Twedy, ma il risultato non è proprio riuscitissimo. Va bene che sono dieci anni che sbagliano dischi (dopo averli azzeccati sempre), però così è un pò autolesionismo. Pure Nels Cline sembra piuttosto castrato, poi chiaro, di classe ne hanno da vendere, e anche un compitino per loro diventa un discreto disco.
Canzone: Everyone Hides.
Sarà un mio problema, ma a me sta roba non entusiasma. Per carità, ce ne fossero di dischi così, ma tra un anno chi ricorderà queste canzoncine dalla produzione così vellutata? Io no.
Canzone: Tonight.
Come non voler bene al nostro Devendra? Sono più di dieci dischi con questo, con alti e bassi, ma sempre col suo stile inconfondibile, fatto di canzoni spensierate, a volte accennate, a volte cantate in spagnolo, o in tedesco quasi sempre sghembe, ma che si fanno ascoltare sempre con piacere.
Canzone: My Boyfriend’s in the Band.
Questo disco ricalca il precedente dell’anno scorso per la sua struttura: un pezzo lunghissimo iniziale che è il cuore dell’album, seguito da cinque canzoni di durata normale a completare. Lo stile è il solito suo: musica sussurrata e dilatata fino all’impossibile. Un gradevole viaggio che ti porta con la testa in altri lidi.
Canzone: Time (you got me).
Ormai sono anni che aspettiamo che Wayne faccia un “Yoshimi 2”, e ogni volta che esce un nuovo disco ci illudiamo un pò, ma ovviamente non arriverà mai più. Almeno questo non è fastidioso come certe altre uscite. E’ una specie di concept, con Mick Jones dei Clash non a suonare, ma a fare la voce narrante (?!) che volendo certe atmosfere e colori di Yoshimi le ricorda pure. A volte bisogna accontentarsi.
Canzone: How Many Times.
Sono passati 20 anni da quando organizzammo un concerto di Will Oldham in uno squallido centro sociale pesarese, e da allora tanta acqua è scorsa sotto i ponti, ma il nostro eroe continua a produrre ottima musica. Nonostante la prolifica produzione però, questo è il primo disco di inediti dal 2011. E come un vino buono lei e la sua voce sono migliorati, diventando più morbidi e perdendo le stonature degli inizi. Diciamo che non è particolarmente ispirato, ma si ascolta sempre bene anche se queste atmosfere country alla lunga stancano, a meno che tu sia un cowboy del Texas.
Canzone: You Know the One.
Dopo l’annuncio della pausa dai Moderat, ed a otto anni dal precedente, c’era un sacco di attesa per il nuovo disco di Apparat. Beh, diciamo subito che l’attesa non è stat appagata. E’ un disco stanco, sembra sempre che sta per partire ma non parte mai. A parte l’ultima traccia, ma ormai è troppo tardi.
Canzone: In Gravitas.
Anche se siamo alla fine degli anni ’10, questo disco potrebbe benissimo essere uscito nei primi anni ’70. Ed è la sua fortuna, perché il bello sono questo atmosfere anni ’70 alla Al Green che sopperiscono alle canzoni un pò deboli.
Canzone: You Ain’t The Problem.
Credo sia stato il primo disco uscito nel 2019. Io camminavo per le strade di Las Palmas con questo nelle orecchie, e mentre mi chiedevo chi fosse Phoebe Sticazzi, rimpiangevo il Bright Eyes dei tempi d’oro. Solo dopo avrei realizzato che sarebbe stato solo il primo di una lunga serie di dischi-con-voce-femminile. Comunque, niente di memorabile, livello medio dei dischi di * degli ultimi dieci anni, ma andando in monopattino verso Las Canteras con questo nelle orecchie non era male.
Canzone: My City.
Le idee sono poche, quindi quest’anno tanti dischi di cover, la differenza rispetto agli altri anni, è che la maggior parte sono riusciti, come questo Varshons II (del primo ignoravo l’esistenza). Canzoni più o meno famose rifrangiate con stile, c’è Chris Brokaw dei Come alle chitarre, la voce è vellutata più che mai, e tutto scorre che è una meraviglia, come il Flixbus che mi porta in Aprile in Croazia con questo disco nelle cuffie.
Canzone: Speed of The Sound of Loneliness.
Come non si va a volergli bene? Bene o male hanno dettato le leggi della musica elettronica da metà anni ’90 fino ad oggi, spesso fregandosene di fare prodotti commerciali, ma solo per il gusto di fare musica. Questo “No Geography” non è né il più brutto, né il più bello della loro lunga discografia. Debole sui singoli, ma mantiene sempre un livello più che soddisfacente per tutto il disco, un pò il contrario di “Born in the Echoes”.
Canzone: Got to Keep On.
Questo è un disco per gli orfani dei Sigur Ros. Visto che probabilmente non faranno più dischi (almeno decenti) perché non pescare qualcos’altro da qualche altro paese nordico a caso. Del resto il danese è incomprensibile come e più dell’islandese. Sono al quinto disco ed escono per la 4AD, un disco perfetto per guardare il paesaggio innevato mentre sorseggi una tazza di caffè.
Canzone: Uden Ansigt.
Loro sono uno dei miei “Guilty Pleasures”: un onesto gruppo finlandese che scrive del pop godibilissimo. Giunti al terzo disco, e persa la memoria di “dirty Paws”, sono passati in maniera anonima in questo 2019, ma io ho passato volentieri queste note nella mia fidata A2 mentre sfrecciavo per le strade di Ibiza.
Canzone: Under a Dome.
Con gli Yeahs, Yeahs, Yeahs in pausa, la nostra Karen O pensa bene di fare un bel dischetto con uno dei produttori più fighi in circolazione. E ovviamente il risultato soddisfa tutti. Finalmente Karen O torna a fare musica dopo quella mondezza del suo disco solista, mentre Danger Mouse non ne sbaglia una, sia come produttore che come scrittore.
Canzone: Redeemer.
Ci voleva un disco di cover che ritrovare il Moz che ci piace, grintoso ma senza le chitarre metal, con le melodie che piacciono a noi, ed arrangiamenti ragionevoli. Anche perché diciamocelo, gli ultimi dischi sono abbastanza fastidiosi quasi quanto le sue sparate, mentre questo si ascolta che è un piacere. Si passa da canzoni famosissime di Dylan ad altre semisconosciute, fino ad un duetto tanto improbabile quanto riuscito col cantante dei Green Day.
Canzone: Days of Decision.
Dopo un paio di tentativi con due EP, finalmente la collaborazione tra questi due gruppi partorisce un album (solo mezz’ora di durata)la cui naturalezza dimostra quanto Calexico e Iron&Wine si mescolino bene insieme. Chiaramente si nota il songwriting di Sam Beam, però tutto suona molto Calexico, e quindi suona molto bene. (a parte la canzone del passero)
Canzone: What Heaven’s Left.
L’anno delle cantanti donna dicevamo. E i Mercury Rev dopo un disco imbarazzante, decidono di coverizzare un intero disco degli anni ’60, facendolo cantare da 6 cantanti diverse. Il risultato è meraviglioso, e se uno non conoscesse il disco originale, o non l’avesse letto, potrebbe essere benissimo contemporaneo.
Canzone: Courtyard.
Prima del disco ufficiale, questa estate uscì tra il silenzio generale questa chicca di disco, che altro non è che: Bonnie “Prince” Billy, il chitarrista dei National Bryce Dessner, e una piccola ensemble di archi che rileggono a loro modo vecchie canzoni sempre dello stesso cantante, ridando nuova vita e luce a brani minori che avevamo dimenticato. Peccato solo per l’ultimo estenuante pezzo di oltre 16 minuti, che si può tranquillamente tirare nel cesso.
Canzone: Best For Thee.
Il disco precedente l’avevo consumato, e mi ricorda un periodo felice dove feci un grosso cambiamento di vita. Da allora Cass è diventato un mio compagno di viaggio, e pure questo disco mi riporta alle passeggiate sulla Canteras come quello precedente sulle larghe strade madrileñe. A dire la verità questo non raggiunge le vette di mangi Love, ma è comunque una delle cose migliori passate in questo 2019 poco ispirato.
Canzone: Sleeping Vulcanoes.
Io penso siano tutte canzoni outtake di quella cosa meravigliosa che era il disco precedente, perché suona identico: basi elettroniche/ e vocoder sparato. Finito l’effetto sorpresa, e con un livello medio inferiore, con colpisce come *, ma si ascolta sempre con piacere.
Canzone: The New isn’t so You Anymore.
Ennesimo disco meraviglioso del nostro crooner di Sheffield preferito, e come sempre disco snobbato da tutti. Songwriting brillante, arrangiamenti sontuosi, melodie sognanti, c’è tutto in questo piccolo bignami sul come scrivere una canzone in Inghilterra nel 2019.
Canzone: Further.
Finalmente. Dopo aver fatto dischi prodotti da dio ma con canzoni “povere”, finalmente il genietto inglese ha imparato anche a scrivere, non solo a produrre. Bellissimi campionamenti (anche di cori italiani anni ’60) e finalmente anche belle melodie. Peccato solo quei pezzi rap all’inizio che danno veramente fastidio, ma a volte skippare non è proprio così malefico.
Canzone: Can’t Believe The Way We Flow.
Io lo dico sempre che non bisogna sposarsi mai, figuriamoci fare figli. Guardate cosa è successo al nostro Bill ad esempio. Dopo una pausa di 6 anni ti sforna un doppio piatto come il matrimonio dove appunto ti racconta quasi alla maniera di Mark Kozelek, com’è bella la vita a casa con la moglie che ti prepara la cena, e il bimbo che cresce. Quasi spoken word, melodie al minimo, strumentazione quasi inesistente. Aspettiamo che Bill divorzi, ci piaceva di più quando soffriva.
Canzone: 747
Se vi piacciono le atmosfere malinconiche, le brasa song, l’aria un pò balcanica e messicana allo stesso tempo, gli arrangiamenti sontuosi ma contemporaneamente lo-fi,
le tastiere Farfisa, gli ukulele e il cantautorato americano, beh, questo è il quarto disco dei Beirut, e vi piacerà.
Canzone: When I Die.
Ci hanno fatto aspettare 15 anni per un secondo disco, e nemmeno ci siamo ripresi dall’emozione che ne sfornano un terzo (ovviamente ancora senza titolo). Il trio più figo del mondo sembra si sia sbloccato (oppure hanno un mutuo da pagare) e noi non potremmo essere più contenti. La batteria è una delle più fantasiose della storia della musica, e Mike Kinsella aka Owen sa scrivere come sempre. Se siete orfani dell’indie americano anni ’90 e le batterie complicate, è il vostro disco.
Canzone: Uncomfortly Numb.
E’ chiaro che dopo aver fatto tre dischi mostruosi, completamente diversi l’uno dall’altro, un piccolo passo falso il nostro Justin doveva farlo. Oppure avrebbe dovuto fare che so, un disco di musica classica. Perché il nostro eroe moderno è passato da una gemma acustica intimista, a un disco super prodotto con 40 tracce e doppia batteria, alla sperimentazione elettronica. Questo racchiude un pò tutti gli elementi ma sembra più un b-side dell’ultimo lavoro.
Canzone: Hey Ma.
Due EP usciti a pochi mesi di distanza, che calcolo come un disco unico. Ovvero il disco del grande ritorno (che non è stato il precedente). Qui troviamo tutti gli ingredienti che hanno fatto di questo ensamble canadese una meravigliosa realtà. Cinque più cinque canzoni (ma due sono solo intro) che messe insieme fanno uno dei dischi più belli dell’anno e della loro discografia, due spanne sopra quello del ritorno di due anni fa. C’è anche Feist e non può che farci piacere.
Canzone: Remember Me Young.
Uno dei primi dischi usciti nel ’19 e con un sacco di aspettative dopo il meraviglioso precedente, che infatti non è riuscito ad eguagliare. C’è da dire che rispetto ai precedenti lavori cambia parecchio il tiro. Abbandonate le chitarre acustiche, qui siamo di fronte ad un disco super-prodotto, a volte pure troppo. C’è un pò la sensazione che la volontà era quella di fare un disco che piacesse a una platea più ampia, con canzoni catchy, e suoni che potessero essere radio friendly.
Canzone: Seventeen.
Questo è il disco che mi ha emozionato di più. E forse è il suo disco più bello. Togliamo il forse. Limate le asperità ed addolcita la voce che in principio mi dava quasi fastidio, il nostro svedosone ha sfornato una delle cose più interessanti dell’anno, ed ovviamente non se l’è cagato nessuno. Bellissimi anche gli arrangiamenti e sopratutto le atmosfere delicate ma al tempo stesso emozionanti. Questo è stato anche il disco che ascoltai mentre riuscì a tornare per 24 ore a visitare i miei, e rimarrà sempre un pò speciale per me.
Canzone: Hotel Bar.
I nostri e eroi continuano con la strada intrapresa dal precedente “Sleep Well Beast” che tanto aveva diviso critica e fans. Scelta che io condivisi in pieno e che qui vede la giusta consacrazione. Il disco segue il mood di quest’anno di inserire voci femminili nel disco, e qui l’effetto è decisamente riuscito. Basta ascoltare il primo pezzo quando Gail Ann Dorsey (ex-bassista di Bowie) inizia la sua parte, è come se si aprissero le porte dell’Olimpo. Il resto del disco scorre tra ritmi sincopati, accenni elettronici, la voce baritonale di Matt Berninger e appunto queste ospiti a fare la parte del leone.
Canzone: You Had Your Soul With You.
Persa la metà creativa, avevo molti timori verso questo 4° lavoro dei VW. E lo hiatus di 6 anni non lasciava certo presagire buone notizie. Quello che ne è scaturito è un disco un pò troppo lungo, molto pop, solare ma senza quel tocco in più che gli dava Rostam. Però si ascolta che è una meraviglia, sopratutto d’estate e di filler ce ne saranno solo un paio su diciotto. Anche qui, come nel trend del 2019, c’è spesso una voce femminile. Forse è il primo disco dove sono una band, e non un duo, e confermarsi dopo tre dischi come i precedenti non era facile, ma la missione è compiuta.
Canzone: This Life.